A Sernaglia, nel 1967 il monumento agli Arditi della Prima Guerra Mondiale fu spostato.
Al suo posto venne collocato un monumento agli Emigranti.
L’emigrazione prese il posto della guerra.
Nei 20 anni precedenti l’intero Quartier del Piave aveva subito una colossale emorragia di forza-lavoro.
Negli anni ’50 praticamente tutti gli uomini di Sernaglia lavoravano all’estero.
Per l’80% era emigrazione stagionale. Cantieri stradali, agricoltura, miniere: da marzo a novembre-dicembre.
Il ritorno e poi la ripartenza. E via e via.
In Italia negli anni della ricostruzione il lavoro non c’era, la povertà era tanta, il bisogno impose di andarsene a “catàr fortuna”.
A volte anche clandestinamente attraverso i passi alpini. Con l’aiuto interessato dei “passeurs”. Trafficanti di uomini e trafficati. Erano strade migratorie conosciute dalla fine dell’800 che portavano un po’ in tutto il mondo. Solo lo sviluppo economico mise fine al salasso di energie.
A Sernaglia l’emigrazione si trasformò, già dai primi anni ‘50, in consapevolezza che a seguito del susseguirsi di tragedie, di morti sul lavoro che colpirono a fondo il paese.
Un maestro elementare, figlio e fratello di emigranti, riuscì a trasformare una condizione di marginalità e umiliazione in una risorsa e in una fierezza. Grazie a Lino Gobbato nacque la prima Comunità degli Emigranti da cui presero esempio analoghe associazioni in tutti i paesi della nostra area.
Lo scopo primario di oggi ci fa stupire e forse sorridere: portare a casa le bare. Seppellire quei lavoratori nella terra dei loro cari. Ma anche aiutare le famiglie in difficoltà. Dare una mano e dare un sentimento di appartenenza a questo “volgo disperso che nome non ha”. Gli emigranti organizzarono feste cantavano la loro lenta e tragica canzone (Santa Barbara), si inventarono grandi pranzi, costruirono carri allegorici per la sagra, fecero convergere sul paese l’attenzione dei politici, si sentirono importanti. Centrali nella comunità .
Alla fine, mentre l’emigrazione declinava e il lavoro lo si trovava a casa, misero un loro simbolo al centro del paese. La statua fu scolpita proprio da un ex-emigrante abile artigiano del ferro-battuto (Eugenio Villanova detto “Battiferro”). La sua statua ferrosa, un emigrante con la lampada da minatore in mano per indicargli il cammino, sale un emisfero di pietra. Il ferro, la pietra, la fatica del salire, il buio da aprire. Simboli di un percorso faticosoe di una meta ignota ai quattro angoli della terra.
E proprio dei tanti paesi di emigrazione vollero essere un segno le manciate di terra provenienti da tutti i paesi di emigrazione e che sono sotto il monumento. La statua non è accompagnata dalle solite frasi piene di retorica ma da una semplice e poetica dedica: “Ai nostri uomini sparsi per il mondo come il grano”;
L’immagine è quella del seminatore che a braccio teso getta lontano i chicchi al momento della semina. Ogni seme cadrà un po’ a caso nel suo pezzetto di terra. Qualche seme non riuscirà ad attecchire. Molti germoglieranno. Un monumento, tante storie, un simbolo del lavoro e della necessità.
Un richiamo al presente.
Ad altre migrazioni.
A cura di UNIPIEVE