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I mulini di Sernaglia, Fontigo e Falzè (1)

Il mulino ad acqua è stato per secoli un elemento fondamentale della nostra civiltà contadina. Nel medioevo serviva a macinare frumento, sorgo, e miglio. Dopo l’arrivo del mais dalle Americhe, invece, questo cereale è diventato il principale elemento della dieta nei nostri paesi, e quindi quello che veniva più spesso macinato nei mulini. Buona parte di essi, comunque, aveva almeno due coppie di macine, una per il granoturco e una per il frumento.

Nelle nostre zone i mulini erano sostanzialmente di due tipologie.
Vi erano quelli con le ruote a pale, che venivano semplicemente fatte girare dalla corrente. Questo tipo di mulini si trovava di solito nelle aree pianeggianti.
Nelle zone montagnose o collinari, invece, venivano costruiti mulini con le ruote a cassetti (detti anche “a coppedello”), come il Molinetto della Croda a Refrontolo. In questa tipologia l’acqua arrivava dall’alto e, cadendo sulla ruota, riempiva via via i cassetti, trascinandoli in basso col suo peso. La ruota, quindi, veniva messa in movimento da due contributi diversi: l’energia dovuta al movimento dell’acqua e quella dovuta al peso della stessa.

Fino all’inizio dell’800 non erano molti i mulini di proprietà dei mugnai che li gestivano. La maggior parte, invece, apparteneva a famiglie nobili o comunque importanti, o a monasteri, conventi ed altri enti ecclesiastici. Nelle località appartenenti a giurisdizioni feudali (come Sernaglia e Falzè, sottoposte al castello di Collalto), i mulini erano molto spesso proprietà dei signori, per i quali costituivano un investimento redditizio, ed anche – dato che si trattava di un’“infrastruttura” fondamentale nella vita dei contadini – una possibilità di controllare più strettamente questi ultimi.

A causa di successive divisioni ereditarie o di vendite, poteva accadere che la proprietà di un mulino venisse suddivisa in “carati”, cioè in quote, ed in questo caso i detentori delle diverse quote si suddividevano i turni di macinazione.
Il mulino costituiva in genere un buon affare anche per i mugnai gestori, nonostante i contratti con i proprietari (nobili, monasteri o altri enti ecclesiastici) fossero in genere piuttosto vessatori. Nella maggior parte dei casi i mugnai erano pagati con una quota della farina ricavata dalla macinazione (detta “moldura”), variabile secondo le usanze locali, tipicamente il 5%.

Soprattutto nei periodi di crisi, diverse famiglie di mugnai si arricchirono e passarono a un livello sociale superiore. Ciò avvenne anche per chi riforniva di granaglie i paesi di montagna nei quali il mais non poteva essere coltivato. Un esempio fu, nel periodo napoleonico, Angelo Pillonetto “Penso” di Sernaglia, che divenne il maggior proprietario terriero del paese. Anche i ricchissimi fondatori dell’Ospedale Bon-Bozzolla di Soligo, o i Botteselle di Col San Martino provenivano da famiglie di mugnai.

Queste possibilità di ascesa sociale, comunque, avevano la controindicazione di rendere il mugnaio una figura poco amata dai compaesani, A questa circostanza si aggiungeva il fatto che per motivi logistici (cioè, ad esempio la presenza di “salti” nei corsi d’acqua) i mulini erano situati al di fuori dei centri abitati (come, a Sernaglia, il mulino di Val), e ancora la particolarità che per utilizzare al meglio l’energia dell’acqua i mugnai lavoravano in orari “strani” (la notte) o proibiti (la domenica).
Questo insieme di circostanze contribuiva a rendere in qualche maniera il mugnaio un isolato, oggetto di invidia, sospetti ed ironia.

Martino Mazzon

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