Monsignor Giovanni Brevio, pievano di Sernaglia nel Cinquecento.
Nella lista dei parroci di Sernaglia compare anche un letterato e scrittore del XVI secolo, monsignor Giovanni Brevio, nato verso il 1480 e morto dopo il 1549. Non bisogna però pensare che egli abbia vissuto stabilmente a Sernaglia, dato che in quell’epoca, prima del Concilio di Trento (celebrato dal 1545 al 1563) a personaggi nobili o illustri venivano conferiti contemporaneamente molti benefici. Questi prelati non avrebbero potuto, neanche volendo, risiedere stabilmente in ognuna delle loro parrocchie, e spesso non vi mettevano neppure piede o, comunque, vi facevano solo visite brevi e sporadiche, affidando la cura delle anime ad altri sacerdoti che prendevano letteralmente “in affitto” queste chiese.
Così avvenne di certo anche nel caso di Brevio, un cittadino di Venezia, figlio (adottivo, secondo il documento di nomina) di Nicolò Brevio, che ricopriva la carica di gastaldo del Doge. La famiglia non era nobile, ma, grazie alla sua vicinanza al vertice del potere veneziano, Nicolò era riuscito a ottenere la promessa di un vescovado per il fratello Francesco, un giurista di diritto canonico dell’Università di Padova. Di fatto, nel 1498 Francesco era stato scelto come vescovo di Ceneda e aveva poi nominato canonico della cattedrale il nipote Giovanni, a cui doveva essere molto affezionato dato che, nel suo testamento, gli lasciò tutti i propri libri vita natural durante.
Nel 1508, anno della morte dello zio, il canonico Giovanni divenne anche pievano di Sernaglia. Non si sa fino a quando mantenne questo incarico, ma solo che nel 1520 era già in carica il successore. Nel 1536/37, comunque, Giovanni era ancora pievano della vicina parrocchia di Santa Maria di Col San Martino, e negli stessi anni era anche arciprete di Arquà in diocesi di Padova (dove fece collocare un’iscrizione in onore di Petrarca, lì sepolto, di Dante e di Boccaccio) e di Roverchiara in diocesi di Verona. Comunque, visse sempre fra Venezia e Padova e poi, dal 1542, a Roma, presso la corte pontificia, dove probabilmente morì.
Proprio a Roma, nel 1545, egli fece stampare un volume che raccoglieva la maggior parte delle sue opere “di gioventù”. Il libro contiene sonetti e altre poesie di imitazione petrarchesca, una raccolta di sei novelle, una traduzione italiana dell’orazione A Nicocle dello scrittore greco Isocrate, il piccolo trattato Della vita tranquilla, in lode della solitudine e lo scritto De la miseria humana, che contiene quattro brevi racconti macabri, utilizzati per dimostrare la malvagità e lo squallore insiti nella condizione umana.
Come era tipico per molti scrittori dell’epoca, le novelle contengono vicende maliziose e anche qualche critica contro la corruzione di ecclesiastici e laici. In una di esse viene citato il racconto del viaggio del corpo di San Tiziano da Oderzo a Ceneda come modello suggerito da un frate ai mugnai per il trasporto della salma del loro collega Berto, che vorrebbero far canonizzare per farne il santo patrono del loro mestiere; ma in questo caso il viaggio si conclude sotto una forca, causando l’ira dei mugnai contro il frate.
La novella più famosa, però, è quella che prende il nome dal protagonista, Belfagor arcidiavolo. In essa si racconta una vicenda identica a quella della Favola (Il diavolo prende moglie) di Nicolò Machiavelli. Sembra certo che il racconto originale sia quello dello scrittore fiorentino, e che monsignor Brevio ne abbia copiato la trama, ma il titolo Belfagor ha finito per essere applicato anche alla novella di Machiavelli. Il ricordo di Giovanni Brevio è oggi legato soprattutto a questo curioso episodio, molto più che alle sue opere o agli incarichi ricoperti nella Chiesa.
Martino Mazzon